In Olanda si sono svolti dei Mondiali di calcio del tutto speciali il cui scopo più che sportivo è sociale
Sara Rossi Guidicelli
Il Re d’Olanda calcia la palla e iniziano i Mondiali. Sul campo, in centro ad Amsterdam, i giocatori, 4 contro 4. Sono signori e signore di qualsiasi età, non sono in piena forma fisica, non hanno il loro parrucchiere personale né la stanza in albergo di lusso con massaggiatore privato: sono i senzatetto del mondo, i giocatori dei Mondiali di settembre 2015, che hanno giocato a calcio per darsi la possibilità di una nuova vita. E il calcio d’inizio glielo ha dato nientemeno che il Re d’Olanda.
La Homeless World Cup è un torneo internazionale a scopo sportivo e sociale che esiste dal 2002 e che si svolge ogni anno in una nazione diversa. Vi partecipano 48 Paesi, ognuno con la sua associazione di riferimento e il suo progetto: riabilitazione di persone che stanno uscendo dalla dipendenza, aiuto ai senzatetto, a ex carcerati, a vittime di violenza domestica, e così via. In sostanza, giocano persone che in qualche modo sono affette da esclusione sociale. Emarginate. Sregolate. Senza un tetto, in senso figurato. Ed ecco che lo sport, il calcio, gli allenamenti, la trasferta, il torneo, diventano tutti modi per cambiare qualche cosa.
Le statistiche dicono che l’80 per cento di chi ha partecipato in questi anni ai Mondiali dei senzatetto è riuscito a modificare la propria vita in meglio. Negli anni, sono state raccolte moltissime testimonianze, che si possono leggere sul sito della Homeless World Cup o sulla loro Rivista che esce ogni anno durante i Mondiali. «Mia figlia è venuta a vedermi e mi hanno permesso di riprendere contatto con lei», racconta uno. «Io mi sono sentito accettato, parte di una squadra, come mai mi era successo prima. E così ho sentito che avevo il potere di prendere in mano la mia vita e che giocare a calcio mi piaceva moltissimo. Oggi aiuto la mia associazione a proseguire con questo bellissimo progetto», dice un altro. «Io ho semplicemente smesso di fumare, ma per me non è un traguardo qualsiasi: sono sempre stata in balia di qualsiasi debolezza, incapace di regolarmi o di prendere decisioni in favore della mia salute. Spero sia solo l’inizio».
Autostima, vitalità, obiettivi da raggiungere. Questo quello che si trova alla Homeless World Cup. Oltre a risultati insoliti, come l’Afghanistan campione del mondo, la Scozia che straccia il Brasile e la Svizzera che come se niente fosse si classifica davanti a Italia e Germania. In campo invece si vede gente di mezza età che gioca per il primo anno della sua vita e ce la mette tutta. Uomini e donne spesso stanchi, malandati, magrissimi o in sovrappeso, che tirano fuori una grinta, una gioia e un’energia impensabili. Persone che «fino a poco tempo prima passavano le loro giornate in un letto imbottiti di farmaci e invece adesso stanno vivendo un’esperienza così piena ed emozionante con i loro cinque sensi».
In Olanda ha giocato anche la nazionale Svizzera della quale quest’anno hanno fatto parte tre ticinesi della squadra Azatlaf, che da 11 anni si allena con Yvan Gentizon, ex giocatore professionista del Lugano, che dopo una bella carriera si è riconvertito nel mondo del sociale. «Io ho avuto la fortuna di poter seguire la mia passione e addirittura, per un periodo, di farne la mia professione. Mentre studiavo alla Supsi ho poi avuto voglia di dare questa possibilità anche ad altre persone, che non hanno avuto questa opportunità», spiega. «Il calcio è in grado di dare moltissimo, in quanto attività che richiede impegno e costanza. Forma uno spirito di squadra, di solidarietà, molto importante, permette di lavorare sui concetti di vittoria e di sconfitta e non da ultimo allena anche la parte fisica». Con Azatlaf allenatori professionisti e infermieri si uniscono per coniugare insegnamenti sportivi e abilità più personali, comportamentali e sociali.
«Quest’anno è successa una cosa bellissima: abbiamo collaborato con Surprise Strassensport, un’associazione svizzera che fa leva sui principi dell’animazione socio-culturale per la reintegrazione di persone fragili, per partecipare ai Mondiali d’Olanda e con il team della Rec, che ha seguito i nostri allenamenti a Tenero, le selezioni per la Nazionale e la trasferta ad Amsterdam». La Rec è un’associazione con sede a Lugano, che si occupa di progetti audiovisivi ma anche di interventi che sono «a cavallo» fra audiovisivo, formazione e socialità. Ne fanno parte anche Daniel Bilenko, Ricardo Torres e Adriano Schrade, che l’anno scorso si sono imbattuti nella bella storia della Homeless World Cup e sono stati proprio loro a proporre ad Azatlaf di partecipare alle selezioni per i Mondiali: Max, Julien e Bruno, tre ticinesi, sono stati scelti e a settembre hanno giocato ad Amsterdam. Il documentario che la Rec sta preparando per «Storie» alla Rsi è previsto per la primavera prossima e parlerà di «calci», spiegano Bilenko e i suoi collaboratori, «quelli che dai e quelli che ricevi, nella vita come sul campo».
Yvan Gentizon ha seguito la parte dei premondiali e poi i primi giorni di trasferta olandese. Per la nostra squadra è stato come nei film epici: all’inizio c’erano condizioni meteo sfavorevoli; un diluvio che giorno dopo giorno si abbatteva sull’Olanda; i nostri sempre più stanchi e demoralizzati. Non si può dire che i primi giorni facessero molti goal… poi, dal giovedì in avanti fino all’ultima partita, si è assistito a una risalita fenomenale. Quel giorno sono arrivati i parenti, gli amici, una morosa, gli educatori delle varie associazioni a cui aderiscono in patria i nostri giocatori. E da lì hanno cominciato a vincere. Uno dei ticinesi, Max, ha compiuto una doppietta che ha mandato in visibilio la squadra e il suo tifo. Alla fine la Nazionale è arrivata seconda… del suo girone. Ma poco importa. Non si è lì per ottenere una coppa: in questo ambiente gioie e dolori sono di ben altro tipo che un punteggio agonistico. L’importante è – per una volta non retoricamente – partecipare, nel senso di «far parte» di qualche cosa. Conoscere sé stessi. Superare sé stessi. Diventare ambasciatori del proprio Paese, tornare e raccontare i Mondiali.
«A me è rimasta un’impressione di festa molto bella, che va al di là delle partite e dei risultati sportivi», racconta Gentizon. «Non ho potuto restare fino alla fine ma i miei ragazzi al telefono mi hanno raccontato che erano felici di aver partecipato a un evento così: prima si chiedevano cosa andavano là a fare, si preoccupavano della loro condizione fisica, poi sono tornati apprezzando soprattutto il fatto di aver fatto parte di una squadra, di essere stati accettati all’interno di un gruppo, nonostante le difficoltà linguistiche. Gli altri infatti parlavano svizzerotedesco, ma alla fine si sono capiti a gesti, sguardi, abbracci, qualche parola. Penso sia stata un’esperienza molto ricca e vorrei che proseguisse». Gentizon sta mettendo in piedi in questi giorni un comitato che dia corpo (e base finanziaria) al progetto Azatlaf. «Le idee sono tante e varie. Penso che sarà difficile organizzare un’edizione dei Mondiali da noi, soprattutto a causa dei visti che avrebbero bisogno i giocatori delle varie squadre, però si potrebbe sviluppare la collaborazione con Surprise per continuare a fare tornei di streetsoccer (calcio di strada)».
Anche i documentaristi della Rec sono tornati entusiasti da Amsterdam. «Era un banchetto, una gioia per l’anima, un’emozione», raccontano. «Chi non ha niente da perdere ha più facilità di contatto, si dà agli altri con più generosità e semplicità ed è sicuramente molto più fair-play di quello che vediamo di solito nel gioco del calcio. Una ragazza argentina a cui abbiamo chiesto cosa si portava a casa di questa esperienza ci ha detto: un grande abbraccio». Ce ne eravamo forse dimenticati, ma il calcio può veramente essere un modo di stare insieme, giocando. Semplicemente.